Lo sconosciuto

UNA POSTILLA. COMUNICARE CON UN MALATO DI ALZHEIMER 

Il morbo di Alzheimer, tra le varie perfidie che gli possiamo rimproverare, mette prima di tutto in disaccordo il malato e chi si trova ad assisterlo. Presto – che, in realtà, è già troppo tardi – il sano non riesce a comunicare con il malato. Non sa più farsi capire. Qualcuno obietterà: “È il malato che non capisce.” In verità, se pure le cose stanno così, cioè che la “colpa” è del malato, porre il problema in simili termini non aiuta a trovare una soluzione. Quando si tratta di Alzheimer, sta al sano sforzarsi di trovare il modo di comunicare. Il malato, infatti, sente il bisogno di comunicare fino alla fine, anche se non sa farlo, e sicuramente non sa di non saperlo fare – e se lo sa anche fare, non lo fa come chi – sano – intenda farlo in un certo modo e non in un altro: il malato di Alzheimer, infatti, non può più scegliere le parole né l’occasione. D’altra parte, neanche noi sani comunichiamo sempre per volontà, o nel momento migliore. Molte delle informazioni che trasmettiamo derivano da espressioni del nostro essere e del nostro linguaggio che esorbitano dal nostro controllo e dalla nostra consapevolezza. Quante volte ci capita di dire una cosa e di pensare il contrario. Comunichiamo una falsità, e la verità magari esce per altra via: in una piega inconsueta dei nostri lineamenti, in un rossore improvviso, in uno sguardo eccezionalmente evasivo. La comunicazione reale sarà questa – involontaria e indiretta. Un malato d’Alzheimer è come uno che arrossisce dicendo una bugia. Sta a noi interpretare il rossore, e perdonargli. Si perdona a un bugiardo che si tradisce. Tanto più si dovrà perdonare a un malato d’Alzheimer, che non sa di non saper dire. Sempre più i suoi discorsi non significano quello che pronunciano. Si tratta di richieste – richieste di aiuto pratico, richieste d’attenzione, richieste di amore. Noi dobbiamo impegnarci a prevenire le richieste. Noi dobbiamo essere pronti a dare. Vicino a un malato d’Alzheimer si fa pratica quotidiana di generosità. Si dà e si deve dare. Ma con ordine, con ragione. C’è una grossa differenza tra il generoso e lo scialacquatore. Lo scialacquatore distrugge se stesso, e non soccorre l’altro. Invece, noi non dobbiamo mai dimenticare che quando diamo a un malato di Alzheimer diamo per salvarlo.

Dunque, si comunica anzitutto soddisfacendo i suoi bisogni. In questo modo, rispondendo alle sue richieste prima che si esprimano in proteste confuse, difendiamo la sua dignità e gli diamo una struttura, una sintassi, perché, facendo da linguaggio, guidiamo i suoi impulsi. La regolarità dei nostri doni gli servirà a regolare il suo bisogno di ricevere. Inoltre, dando con regolarità gli evitiamo di chiedere invano, disperatamente, e non lo facciamo sentire solo.

Si comunica anche in un altro modo. Ascoltando. Il malato d’Alzheimer, a un certo punto, prima di perdere completamente l’uso della parola, si mette a sragionare, a straparlare, a dire solo cose prive di senso. Noi non dobbiamo ostinarci a correggerlo, e nemmeno a ignorarlo. Dietro anche la frase più folle c’è un’intonazione. L’intonazione è l’ultima a morire. Noi, se ascoltiamo, capiremo sempre lo stato d’animo del malato – che varia moltissimo, di giorno in giorno, di ora in ora. Il malato d’Azheimer perde tutto, ma non le emozioni, e può essere sereno o disperato, gioioso e triste come chiunque.

A un certo punto anche le emozioni, che pure avvengono in lui, non arrivano alla soglia dell’espressione, o ci arrivano attutite, trasformate, indebolite a tal punto che noi, con tutta la buona volontà, non sappiamo minimamente che farne. E allora?

Non ho ancora nominato la forma di comunicazione più efficace, la più utile, cui io stesso ho fatto ricorso nei momenti di maggiore difficoltà. Il contatto fisico. Mio padre, che certo non si poteva dire un uomo affettuoso, diventava l’incarnazione della tranquillità e dell’appagamento non appena lo accarezzavo. Io non avevo molta confidenza con lui, dunque non ero portato ad accarezzarlo per abitudine, o per semplice affetto. Lo accarezzavo perché me lo imponevo. E serviva. Alla fine mi piaceva toccargli il braccio, o anche infilargli le pantofole ai piedi. E tagliargli i capelli. Se anche era molto agitato, il contatto delle mie mani lo placava. Diventava mansueto e piegava, come se fosse consapevole e lo volesse, la testa sotto il getto dell’acqua tiepida, e restava chino senza esprimere alcuna impazienza mentre gli insaponavo la testa e, dopo, gliela frizionavo con l’asciugamano.

Dicevo che in un malato d’Alzheimer il bisogno della comunicazione non viene meno neanche quando la malattia ha raggiunto la fase conclusiva. Voglio raccontare qui un episodio della vita di mio padre, che ho raccontato a pochi. Mio padre era ricoverato da un paio di settimane al Niguarda. Stava morendo. Non camminava più, non parlava più, non mangiava più da diverso tempo. Ormai non faceva che tossire e piagnucolare. Era ridotto a pelle e ossa, e catarro. Molto catarro. Aveva la maschera dell’ossigeno. Le mani erano gonfie e le braccia coperte di piaghe. Muoveva la bocca da una parte all’altra, avanti e indietro, come se digrignasse i denti. Ma non c’era un’intenzione in quel residuo di movimento, perché in lui non c’era più volontà, desiderio, pensiero. Io ormai lo andavo a trovare di rado. A che serve? mi dicevo. Mi veniva un gran mal di testa, e poi rimanevo di cattivo umore per il resto della giornata. Una tempo, almeno, anche se non mi riconosceva e non capiva più le mie parole, potevo portarlo a passeggio per il corridoio di Palazzolo. Passin passetto si arrivava al bar del pian terreno e lì gli compravo un caffè d’orzo o un gelato, e anche se non potevamo dirci niente, per lo meno vivevamo una situazione apparentemente normale, perfino piacevole, una specie di microscopica, illusoria scena di villeggiatura.

Detestavo i suoi lamenti protratti. I dottori del Niguarda mi dicevano di non badarci. Non era detto che quei suoni fossero reali espressioni di dolore. Però lo sembravano. I lamenti, negli ultimi giorni, si erano ridotti a un rantolo perpetuo, monotono, a parte l’innalzamento periodico del volume. Pensavo ai suoi compagni di camera, che non erano malati come lui. Ero imbarazzato, se posso usare quest’aggettivo per descrivere lo strano, vergognoso stupore in cui mi precipitava quel rantolo. Come riuscivano a dormire? Cosa pensavano di quell’ospedale, che ricoverava moribondi e infermi qualunque, senza distinzione alcuna, nelle medesime camere? Avevano odio per quel corpo rovinato, offeso, ulceroso da cui usciva quel suono quasi magico, come il misterioso fischio mattutino dalle pietre del Colosso di Memnone? Queste domande mi ponevo, ma l’unica vera domanda cui avrei voluto dare una risposta era un’altra: perché soffriamo? La vista di mio padre moribondo mi metteva davanti la violenza della nostra condizione umana: io, senza nessuna volontà di partecipazione, assistevo come un sadico ai tormenti di un indifeso. La nostra impotenza ci è imposta. Ma non è una scusa. Domandai a un signore, che era salito da Napoli per farsi curare un problema ai reni, se mio padre rantolasse a quel modo anche la notte. Il signore, anziché confermare i miei timori, mi disse: “No, suo padre se ne sta sempre buono buono.” Più ancora che la risposta mi colpì il tono dell’uomo, pietoso, per nulla infastidito. Capii che non mi mentiva, che non stava cercando di rassicurarmi – che davvero mio padre non rantolava di norma. Allora lo misi alla prova. Dissi a mia madre, che era con me, di tacere. Ci zittimmo tutti e due. Il rantolo proseguì per qualche secondo, quindi smise. Riattaccammo a parlare. Il rantolo riprese. Smettemmo di nuovo. Smise anche lui. E così per diverse volte. Era chiaro. Quel rantolo era quanto restava della capacità di mio padre di comunicare. Quel rantolo si inframmetteva alle parole mie e di mia madre – è pazzesco pensarlo, ma fu così! – come la parte di un conversazione. Era la voce della malattia che si modulava un’ultima volta, con l’unica sostanza che le rimaneva – il lamento nudo –, nello sforzo istintivo di trascendere il declino estremo. Fu l’ultima volta che io e mio padre ci parlammo. Il nostro ultimo dialogo.

n.g.

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